‘Il primo colloquio con i genitori costituisce una parte integrante della consultazione nel periodo adolescenziale del figlio. Nella maggioranza dei casi, infatti, sono i genitori, talora uno di essi, a prendere l’iniziativa di chiedere una consultazione per il figlio adolescente, ma, quale che sia la loro motivazione, si sa bene che essi non sono mai dei semplici invianti, anche quando tentano di costituirsi come tali o magari come coloro che si limiterebbero volentieri a far da tramite, eventualmente telefonico, tra l’operatore e il figlio.’

(Il primo colloquio con l’adolescente, Telleschi e Torre)

L’articolo di oggi nasce da una storia che coinvolge un ragazzo con Dsa ma, siccome vogliamo raccontarvela per bene, partiamo dall’inizio e da dove tutto è cominciato.

Una mamma ci ha qualche tempo fa contattate quando il figlio stava frequentando la seconda media.

Ci ha riferito le sue difficoltà nello studio: a casa studiava con lei e alla sera col papà.

Non era un ragazzo autonomo e anche i voti che prendeva non erano soddisfacenti.

Il ragazzo aveva poco tempo durante la settimana perché giocava a calcio (tre allenamenti più le partite) perciò si ritrovava a dover studiare il sabato e la domenica, sacrificando spesso le uscite con la famiglia e gli amici.

La mamma era molto ansiosa, anche per sua stessa ammissione, rispetto alla gestione dei compiti e della scuola.

La sua richiesta era quindi di affiancare il suo ragazzo nella gestione dei compiti, perché potesse diventare più autonomo e organizzato.

Si vedeva chiaramente che era esausta e che non ce la faceva più a seguire il figlio nell’esecuzione degli impegni scolastici, e da qui la scelta di venire presso il centro InStudio.

Una madre loquace, che parlava tanto, ma che alla fine diceva poco; confusa, sfiduciata e bisognosa di soluzioni.

Il primo atteggiamento di “comprensione attiva

Mi sono trovata, come responsabile, in una situazione per cui non potevo deludere totalmente le aspettative della madre, ma contemporaneamente neppure colludere con il suo agire compulsivo.

Mi sono posta quindi in un atteggiamento di “comprensione attiva“, formulando ipotesi esplicative delle difficoltà del figlio e sue e valutando quale era la strategia educativa-psicologica più utile da mettere in campo per quella determinata situazione.

Ma dentro di me l’idea che si trattasse di un ragazzo con Dsa cominciava a prendere forma. L’avevo messa in stand by, solo ed esclusivamente perché la madre non aveva fatto cenno in sede di questo primo incontro, ad alcuna certificazione.

Per questo la mia decisione è stata quella di elaborare un semplice piano di studio dove fissare i giorni e le ore di incontro.

Ho proposto quindi il doposcuola, un servizio organizzato in gruppetti da tre-quattro studenti per ogni educatore.

Il doposcuola nel centro InStudio ha lo scopo di rendere i ragazzi autonomi, lavorando nel gruppo ma prestando estrema attenzione al singolo, al metodo di studio individuale, alla persona, allo stato emotivo, alla gestione dell’ansia, alla motivazione.

L’approccio utilizzato è di tipo metacognitivo e dopo un mese dall’osservazione diretta, abbiamo deciso di organizzare un secondo colloquio con i genitori con l’educatrice e la psicologa.

Il Tempo del Dubbio

All’incontro ho espresso i miei dubbi su delle problematiche specifiche che il ragazzo poteva avere: c’era una mancanza di metodo di studio ma, in particolare, una difficoltà nella scrittura e in matematica.

Solo allora la mamma si è vista costretta a parlare della diagnosi e della certificazione riposta nel cassetto e risalente a due anni prima.

Era un ragazzo con Dsa e i genitori non l’avevano comunicato, la certificazione era stata tenuta a casa in un cassetto, mai consegnata a scuola e mai fatta vedere agli insegnanti.

Il ragazzo con Dsa deve essere aiutato con strategie personalizzate

L’educatrice e la psicologa hanno in quel momento intuito che la situazione era seria, non tanto per la certificazione ma per il non-uso che ne era stato fatto.

Parlando con la mamma abbiamo intuito che anche il papà non accettava la diagnosi e che secondo lui il figlio, semplicemente, non aveva voglia di studiare.

In più dal dialogo era emerso che la mamma non sapeva cosa significasse essere un ragazzo con Dsa, possedeva poche e scarne informazioni in merito ai disturbi dell’apprendimento.

E a completare il quadro era subentrata la conoscenza della vergogna del ragazzo, che non parlava a nessuno di questo, in quanto non voleva essere additato come il ragazzo con Dsa che ha bisogno di un’attenzione supplementare rispetto agli altri.

Cosa fare in casi come questi, più frequenti di quanto si possa immaginare?

La risposta è lavorare sul post-diagnosi ed è ciò che abbiamo fatto qui ad InStudio.

Questo perché, di base, chi possiede una diagnosi sa che deve recarsi a scuola per protocollarla e, con la collaborazione dei docenti, richiedere che venga stesso il piano didattico personalizzato (PDP) dove vengono elencati gli strumenti compensativi adeguati e le misure dispensative che servono per mettere in campo una didattica effettivamente personalizzata.

Questi passaggi non vengono molto spesso spiegati ai genitori e tantomeno al ragazzo con Dsa e questa situazione può creare incomprensione, anche mancanza di fiducia.

E si tratta di stati perfettamente normali, perché è normale avere timore o anche diffidenza verso ciò che non si conosce.

Ecco che può capitare che il ragazzo con Dsa e la sua famiglia non conoscano il significato di termini quali dislessia, discalculia, disortografia, disturbo della comprensione del testo, anche se sono vocaboli ormai noti ai più, soprattutto alle famiglie con ragazzi in età scolare.

Il problema è che un ragazzo con Dsa può non riconoscere questa sua difficoltà e non lo sa fare nella quotidianità, nel rapporto con i genitori e con le altre persone.

Va inoltre considerato che non esistono due Dsa uguali.

Un ragazzo con Dsa può leggere romanzi, mentre altri possono non avere mai aperto libri di lettura. Un ragazzo con discalculia può far fatica a compilare un bollettino postale mentre altri possono riuscirci tranquillamente.

Un ragazzo con Dsa può intendere il disturbo come una marcia in più, oppure come zavorra, dipende dai casi e conoscere il proprio disturbo dell’apprendimento significa davvero conoscere sé stessi ed essere in grado di dire: “Ok, io sono così”.

La comprensione della diagnosi nel ragazzo con Dsa

Ogni diagnosi è unica perché unico è il soggetto protagonista.

Ecco perché comprenderla al meglio è un passo fondamentale non solo per aiutare il ragazzo con Dsa nella pratica, ma anche per salvaguardarlo dalla comparsa di stati pericolosi quali la mancanza di autostima e di auto efficacia, che possono seriamente compromettere il suo benessere e anche la sua resa scolastica.

I genitori del ragazzo con Dsa hanno sbagliato, questo è certo, perché hanno rallentato e ostacolato un processo che può aiutarlo a scrivere un cammino di vita e di apprendimento migliori, per il suo futuro e per il suo immediato presente.

Perché come afferma C. Cornoldi:

“La diagnosi del ragazzo con Dsa non deve essere mai vista come un documento di cui vergognarsi o addirittura da nascondere in un cassetto.

La diagnosi non è semplicemente un atto burocratico che sancisce il diritto a tali tutele ma anche un processo di comprensione delle caratteristiche del bambino che guidi alla costruzione di un progetto per la crescita delle sue competenze.”

InStudio Trissino è centro per Dsa in Veneto. Per richiedere informazioni sulle attività e i servizi proposti chiama in studio o clicca su questo link per compilare il modulo di contatti, riceverai una celere risposta dal nostro staff.